L’Inter, Cou-vacic, la stagione di caccia e i fantasmi del passato

Non penso riempirò di spilli le bambole voodoo di Mancini per la cessione di Mateo Kovacic (tanto più alle cifre che leggo), così come non credo scenderò in piazza per lanciare molotov contro l’ambasciata indonesiana. E non perché non lo ami come giocatore. “Non sei tu, sono io”, direbbe qualcuno in altri contesti.

Chiamiamoli teorema e corollario di Cou-vacic: non è vedendo più la panchina che il pallone che un potenziale talento esplode; non è stravolgendo compiti e posizioni in campo che ne definisci il ruolo.

Dimostrazione del teorema. All’epoca della cessione di Coutinho fui tra i pochi a non farne un dramma. Era un baby talento? Assolutamente sì. Rientrava nei piani dell’Inter? Purtroppo no. Giusto cederlo – molto a malincuore – se sei costretto a far cassa. Magari discutiamo delle cifre in ballo, questo decisamente sì.

Dimostrazione del corollario.
Passando da tre allenatori, Kovacic è stato provato almeno in quattro posizioni (play basso, interno, trequartista, addirittura esterno con una scelta criminale). Risultati? Tanti dubbi, e molta pressione inutile sulle spalle di un ventenne alla prima esperienza in un competizione importante e lontano da casa.

Facciamo ordine su Mateo. È un potenziale talento? Sì. Ha espresso tutto il suo potenziale? No. Si è capito dove debba giocare? No. Potrà diventare un fuoriclasse? Glielo auguro, ma non lo sappiamo. Potrà diventare un giocatore decisivo, in grado di spostare, da solo, gli equilibri di un torneo o di una stagione? Difficile.

Giusta o sbagliata (per me tecnicamente sbagliata – avrei insistito su Kovacic, in squadra e fisso in campo – ma comprensibilissima) che sia, si parla di una cessione che porterà nelle casse del club fior di quattrini. Grosso modo gli stessi quattrini che il Bayern Monaco ha sborsato per comprare un campione affermato come Vidal, non un progetto di fuoriclasse. Un’altra stagione anonima come le precedenti, e quella cifra non la sborsa più nessuno. Peraltro, Kovacic era palesemente fuori dal progetto tecnico: era uno dei tanti, lì a contendersi il posto con gente che ha la metà della sua classe e della sua eleganza. Non esattamente l’architrave dell’Inter di Mancini*.

Mateo Kovacic è una specie protetta. E chiedergli di mordere le caviglie all’avversario o di sprintare sulla fascia con dei terzini piccoli e rognosi vuol dire aprire ufficialmente la stagione di caccia. Come cantava Sting, “If you love somebody, set them free”. E allora free Kovacic. Libero di giocare, e libero di giocare dove ritiene di farlo meglio. Non imprigionato tra panca e realtà.

Adesso il punto centrale è un altro, secondo me. Non è più l’opportunità e la liceità della cessione di Kovacic: è cercare di non buttare nel cesso quel tesoretto. I fantasmi di Ricky Alvarez e Alvaro Pereira gridano
ancora vendetta.

In sintesi: ciao Mateo, in bocca al lupo e grazie per tutto. E divertiti, soprattutto, tu che puoi.

*Dopo un precampionato deludente e una cessione dolorosa, Mancini ha solo una cosa da fare per salvare il posto: arrivare almeno terzo. I soldini dell’Europa League, da soli, non sarebbero sufficienti a chiudere in pari il bilancio dell’anno prossimo. Diversamente, che continui a telefonare ai big per convincerli a firmare con l’Inter, se vuole. Ma a quel punto sarebbe più giusto che lo facesse da casa sua.

Regionali. Il PD ha un occhio pesto

Dopo che Matteo Renzi sabato ha violato il silenzio elettorale per ribadire come queste regionali avessero “valenza locale” e non fossero un test per il governo (allora non si capisce per quale motivo il governo si senta legittimato nella sua azione dal risultato delle elezioni europee dell’anno scorso, sbandierando in continuazione quel 40,8%. Quelle elezioni erano un test per il governo e queste no?), a urne ormai chiuse, quando si parlava solo sulla base di exit poll, il mantra ufficiale dello stato maggiore renziano è tornato ad essere “colpire Pastorino (e Cofferati, e Civati)”. Deve essere per questo che Orfini e Rosato si sono presentati davanti alle telecamere per accusare Luca Pastorino della mancata vittoria del PD in Liguria – chissà, forse Pastorino è responsabile del risultato tremendo anche in Veneto. Da allora, in tanti a recitare la poesia imparata a memoria.

Eppure, a me questo sembra un ragionamento stupido e arrogante.
Stupido perché la presenza di forze a sinistra del PD (dove ormai di spazio ce n’è) era stata abbondantemente messa in conto di Renzi, e perché quei voti espressi per Pastorino non sono gli stessi che mancano alla Paita. In buona parte hanno lo stesso DNA, certo, ma sono persone deluse dal PD nazionale e regionale, e che senza la proposta di Pastorino avrebbero alimentato il partito dell’astensione o avrebbero fatto scelte diverse (penso al M5S, che continua a intercettare voti – tanti voti – senza una marcata radice ideologica). Solo una piccola parte, penso, avrebbe scelto la Paita, turandosi tutto ciò che ci si poteva turare.
Arrogante, poi, perché denunci un “furto” di qualcosa di cui che non è affatto di tua proprietà (al massimo è comodato d’uso. Tipo il decoder di Sky). Quei voti non sono nè del PD nè della Paita, così come non sono di Luca Pastorino. Sono degli elettori. Elettori a cui il PD continua a proporre politiche e ricette per le quali Alfano esulta. In fatto di ambiente, lavoro, scuola, lotta alle disuguaglianze, sì che quello del PD è stato un #cambiaverso. Beh, e pretendete che gli elettori (anche quelli storici. Prendete me: mica mi ha fatto piacere, da un anno a questa parte, smettere di votare PD. Ma continuare sarebbe stato impossibile) continuino a votarvi?

Salomone non si tocca

Tra un’amichevole estiva e un rinforzo dal calciomercato, la notizia è deflagrata come una bomba: Michele Salomone non farà più le radiocronache del Bari. Anzi, della FC Bari 1908. E ha lasciato strascichi pesantissimi, come prevedibile. Facile, con numeri-record alle spalle.

Ai baresi non c’è bisogno di presentarlo, Michele. È uno di loro, che entrava in casa della gente tramite le frequenze prima di Radionorba, quindi, da due anni a questa parte, di Radio Puglia. Uno a cui i baresi avrebbero volentieri fatto commentare anche la Nazionale o Germania-Argentina. E chi se ne frega se una volta confonde un giocatore con un altro e se un’altra volta gli parte il falsetto.

Ai non baresi, però, va presentato. È uno che, quando Radionorba due anni fa sceglie di non puntare più sulle radiocronache del Bari, non esita a lasciare il gruppo Norba e parte della sua vita professionale per la scommessa-Radio Puglia. E la scommessa l’ha vinta, con i tifosi che l’hanno seguito in tutto il mondo, grazie allo streaming e alla app per smartphone.
Michele è uno di quelli che, per garantire le radiocronache dei match estivi di Coppa Italia, se li autoproduceva, pur di non interrompere questa specie di “servizio pubblico”. E se questo ancora non rende l’idea, basti pensare che quando arrivò in aeroporto con la squadra da Latina dopo il doppio pareggio che ci estromise dalla finale playoff, i tifosi bramavano una foto con lui come con Sciaudone, Galano, Polenta o Joao Silva. Io stesso, da quel giorno, ho scelto come foto profilo di FB una foto fatta in quella circostanza.

I freddi numeri. 38 anni e mezzo, 1871 tra telecronache e radiocronache. Una vita, anche di più. Quando si parla di un regno duraturo e incontrastato in ambito sportivo spesso si usa Sir Alex Ferguson come pietra di paragone: 27 anni di fila sulla panchina del Manchester United (ci sarebbe pure Guy Roux, ma i suoi 44 anni consecutivi all’Auxerre sono meno conosciuti). Bene: Salomone è durato oltre undici anni di più. Certo, con ruoli molto diversi, ma sono i numeri, impressionanti in entrambi i casi, a parlare.

Salomone ha attraversato indenne retrocessioni in serie C la sera di un matrimonio e promozioni guardando la partita in albergo, cessioni remunerative e talenti comprati a due lire, bidoni spacciati per fenomeni e campioncini veri, vittorie a San Siro e sconfitte casalinghe nei derby, il Bari dei baresi e il Bari dei cileni, degli svedesi o degli inglesi, presunte combine a Venezia e la schifezza accertata del calcioscommesse, i quasi sessantamila e le diserzioni, trattative vere, finte o presunte, compratori americani in aeroporto e tifosi in lacrime, pure loro in aeroporto. Ma non ha vissuto la prima stagione della nuova era, la prima iniziata sotto la gestione Paparesta.

Da maggio in poi quella di Gianluca Paparesta è stata una corsa a perdifiato con traguardi che i baresi potevano solo sognare, nonostante alcuni non fossero irrealizzabili: il cambio della denominazione del titolo sportivo, un programma ambizioso, allenatore e DS competenti e affamati, tanti acquisti nei primissimi giorni di mercato, il puntare forte su un settore giovanile da rimettere in piedi e ancora, la campagna abbonamenti, il servizio print@home, le nuove maglie. Poi certo, il nuovo logo: non sarà bellissimo e di certo rompe con la tradizione, ma voglio vedere il lato positivo, e il lato positivo è il render noto il processo creativo alla base della scelta. È tanto, per una società abituata a non comunicare coi tifosi e a chiudersi nella sua torre d’avorio.

Ma privare i tifosi del Bari della loro voce storica (con i diritti delle radiocronache ceduti, peraltro, alla stessa emittente che due anni fa decise di non credere più in questa squadra e che negli anni ha collezionato qualche scivolone, tra editoriali “sui generis” e la presentazione della squadra prevista nei passaggi televisivi ma avvenuta quando in TV trasmettevano la pubblicità), no. Serve più rispetto. Per i tifosi, e anche per Michele. Ed è per questo che #Salomonenonsitocca.

PS. Caro presidente, una soluzione forse ci sarebbe. Nel suo progetto ambizioso, più volte ha dichiarato di voler allestire un canale tematico. Diciamo un Bari Channel.
Beh, da oggi il telecronista forse migliore di Bari, certamente il più rappresentativo dei suoi tifosi, è un po’ più libero. Perché non gli fa una telefonata?

Priorità

catalano m5s
Un deputato propone un dibattito interessante sulla sua bacheca su un tema che riguarda moltissime persone, ma c’è chi mette a fuoco altre priorità.

Cosa avrei detto a Bologna

Caro Pippo,
mi sarebbe piaciuto molto essere domani a Bologna, ma sarò impegnato ai seggi perché, come sai, a Bari ci sono le primarie del centrosinistra per decidere il candidato sindaco di coalizione, e dunque ti scrivo qui quello che ti avrei detto davanti a un caffè, che lo sai che parlare in pubblico mi riesce proprio difficile.

Sono stato molto combattuto, nei giorni scorsi, e lo sono ancora. Da elettore prima e iscritto poi, non ho ancora capito perché Renzi abbia di fatto sfiduciato Letta, dopo che fino a venti giorni fa nulla lasciasse presagire questo epilogo, a parte qualche “scossa di assestamento”. E aspetto che qualcuno me lo spieghi.

Siccome su alcuni punti ho una posizione più precisa mentre su altri sono ancora confuso, ti butto giù qualche riflessione, così come mi vengono, chissà, magari scrivendotele me le chiarisco io per primo:

***

a) Non ti invidio

Si può non invidiare un deputato? Secondo me sì. Sì, perché al di là della retorica anti-kasta e di quella anti-anti-kasta, sono gli uomini che fanno la storia. E la fanno con le loro azioni: non con i privilegi, non con le poltrone, non con la scorta che ti accompagna all’Ikea, non con le monetine del Raphael. E queste azioni, se compiute in solitudine (o quasi), assumono un contorno e un’eco diversi.

Come dice il terzo principio della dinamica, “a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. Solo che questo non vale solo per la fisica, come quando spari col fucile (azione) e subisci il rinculo (reazione). Vale sempre. Pure in politica. Come, ad esempio, il non votare la fiducia al governo Renzi (azione) e l’uscire dal PD o l’essere cacciati (reazione). A livello personale, la tua scelta definitiva sarà quasi drammatica, qualunque questa sia. “Voto no ed esco?”. “Voto no e rimango?”. “Voto sì per disciplina di partito, ma mi prendo i vaffanculo e le ironie, mi sento dire che sono sceso a patti con Renzi e lancio su twitter un secondo #insultacivati?”. Non vorrei essere nei tuoi panni.

Nell’ultimo anno, per ragioni personali, più volte mi è capitato di dover riflettere sul dolore (e qui mi dirai “Leggiti Julian Barnes, che l’ho scritto cento volte”). Anche in termini meno comuni, quasi algebrici. In occasione di un bruttissimo momento che ha coinvolto me e molti amici, mi son chiesto se un dolore ripartito tra più persone fosse più una moltiplicazione o una divisione del dolore di ognuno. Ad oggi ancora non so rispondermi. Secondo me non c’è paragone tra il dolore dovuto alla perdita di qualcuno e il dolore che può esserci dietro il compiere una scelta, ma il concetto alla base è lo stesso. E se da una parte devo ancora capire se un dolore condiviso sia più forte o più “diluito”, d’altra parte un dolore, qualsiasi dolore, in forma privata, è centomila volte più grande. Dunque mi immedesimo in te, con molto rispetto.

***

b) questione-fiducia

Se fossimo a X Factor ti direi “Per me è no”, qualunque cosa succeda. E questo, a riprova che non era una questione personale nei confronti di Enrico Letta, ma che era lo schema riproposto delle larghe intese ad essere particolarmente indigesto (fino a febbraio il refrain della campagna elettorale della coalizione “Italia bene comune” era “Mai con Berlusconi!”, salvo poi una clamorosa inversione a U, senza consultazione degli iscritti e con risvolti tragicomici), oltre che infruttuoso (come diavolo fai a parlare di ambiente, di fisco più equo, di diritti, di legalità con gente che proponeva condoni edilizi e fiscali, che disse che Eluana Englaro fu ammazzata e che occupò le scale del tribunale di Milano?).

E quello che è successo tra aprile e maggio, in piena emergenza, e che poteva/doveva essere un governo di scopo (ma non lo fu), con due cose urgentissime da fare e poi di nuovo alle urne, si è trasformato in un governo politicissimo con obiettivo fine legislatura. Non fa niente che la maggioranza sia la stessa del “potrebbe cadere il governo” a giorni alterni (è vero, Forza Italia è uscita, ma a Renzi ha dato “assoluta disponibilità”): l’obiettivo è star lì quattro anni.

E tanto per esser chiari, qui nessuno vuole tirare i piedi a Matteo Renzi: solo, ci si lascia andare a previsioni neanche così difficili da fare. È come se andassi allo stadio per vedere Bari-Real Madrid: non è che tifo contro la mia squadra, è che penso prenderà un sacco di mazzate.

***

c) “Esco o non esco?”

Sono iscritto a questo partito da maggio. Poco prima, in rapida sequenza, le elezioni non vinte, i primi tentennamenti, la proposta-Marini (giustamente, e apertamente) cassata, la proposta-Rodotà (follemente) trascurata, l’assassinio politico di Prodi, i 101 incappucciati che ancora si vergognano di fare coming out (o di costituirsi), il Capranica, le dimissioni della segreteria Bersani, il Napolitano bis, Letta che da numero due del PD diventa numero uno del governo, le larghe intese, Occupy PD. Il 20 aprile 2013, quando venne definitivamente affossato Rodotà e nacque il Napolitano-bis, ero con Rodotà, perché quel giorno era a Bari, al Petruzzelli.

Mi sono iscritto al PD per la rabbia e la vergogna che il partito che fino ad allora votavo mi aveva fatto provare. Io mi vergognavo per loro, loro non penso si vergognassero di nulla – in questo, Anna Finocchiaro che “non so che cosa vogliono questi signori” – è emblematica.

Mi sono tesserato (anche, ma non solo) per “colpa” tua e della famosa “tessera nonostante”, perché c’erano cose da cambiare, temi da affrontare, congressi da vincere. E anche perché ho sempre sostenuto che una battaglia fatta da fuori sarà senz’altro importante e sicuramente “romantica”, ma prosaicamente non ti cambia l’esito della guerra perché da fuori molto difficilmente puoi influire, puoi contare qualcosa.

Non sono mai stato un elettore (prima) e un iscritto (dopo) “ortodosso”, col partito da difendere a tutti i costi. Quando il partito ha sbagliato l’ho sempre sottolineato, perché trovo molto immaturo difendere per partito preso – è il caso di dire – qualcuno che sbaglia ripetutamente. Inizialmente non vedevo altre alternative allo starci dentro, come unico modo per cercare di indirizzare il timone della barca. Oggi, dopo un congresso andato com’è andato (ma partendo da zero) e una minoranza che è tale solo sui giornali, visto che in direzione vota con la maggioranza del partito per una poltrona in più, ho certezze meno granitiche. Però.

Però non posso non tornare alla mitica “tessera nonostante” di cui sopra, e adesso ti dico perché. Secondo me, la politica fatta per il gusto di farla e per amore di una comunità è generosità allo stato puro. Dall’alzare e abbassare la saracinesca del circolo al creare occasioni di ascolto nel quartiere al rinunciare a stare con la tua famiglia perché hai l’assemblea cittadina.

Non mi sento un militante, mi sento più un iscritto, e proprio per questo guardo con molto rispetto chi dona il suo tempo agli altri. Però il tuo appello di maggio è stato un appello alla generosità. Come quando succede qualche disastro e si conta sulla generosità e sul senso di appartenenza a una comunità della gente piuttosto che su una risposta “centrale”. Penso agli alluvioni in Italia, con la gente che si prodiga dalle altre regioni, nonostante il manicheismo geografico “Nord vs Sud” creato da una classe politica di terz’ordine e non soppiantato, proprio in termini di operazioni culturali, da un’altra classe politica che non si è dimostrata così tanto migliore. Ma penso anche a Telethon, a cui ogni anno gli italiani versano soldini perché “lo stato taglia i fondi alla ricerca e io ho quel mio parente che sta male, dunque dieci euro glieli do io, a Telethon”. Beh, quella tua chiamata alle armi è stata la stessa cosa. Un appello a quegli “angeli del fango” della politica che venissero a togliere detriti, macerie e incrostazioni da un partito alla deriva e preda di guerre intestine e vendette trasversali.

Penso al tuo appello e guardo il mio circolo. Come me, si sono iscritti Gianluca e Gianni, uno verso aprile, l’altro a ottobre. A febbraio avevano votato SEL. Un altro amico di un altro circolo, Roberto, si è tesserato con me, a maggio, ma a febbraio aveva votato Ingroia. È tutta gente che riconosceva nel PD l’architrave di una coalizione di centrosinistra (quando ancora c’era, quella coalizione), ma che piuttosto che iscriversi si sarebbe fatta togliere un dente senza anestesia. Eppure si sono iscritti, per cercare di cambiare questo benedetto partito da dentro. Se dovessi prendere per buono l’esito del congresso, dovrei dire che non ci siamo riusciti. Ma abbiamo gettato un seme.
È per rispetto verso questa gente che, secondo me, non dovresti uscire (almeno, di tua spontanea volontà). E bada bene: non te lo dico più perché io sia così convinto della maggiore incisività di un’azione dall’interno (ci vedo molto poco margine di manovra, ormai). Ma solo perché dovresti ricambiare il gesto. Non puoi far avvicinare a un partito chi quel partito lo andava scansando come la peste, e poi uscirne tu. E molti di questi neoiscritti adesso non sono solo semplici tesserati, ma sono membri di organi direttivi. Che facciamo, dissodiamo il terreno e iniziamo a seminare, ma ce ne fottiamo di innaffiare le piantine? Avremmo buttato tempo.

Ancora più prosaicamente: converrebbe, un’uscita? Per far cosa? Per diventare, come diceva qualcuno, se va bene, Vendola, se va male, Ingroia? Chi raccoglieremmo, con un nuovo soggetto politico al di fuori del PD? quattro grillini e qualche SELlino? Forse. Ma temo perderemmo molti attuali iscritti al PD.
Ti ripeto: non sono più così convinto della maggiore incisività dall’interno e della capacità del PD di autorinnovarsi. Ma temo che lo scenario fuori potrebbe essere ancora peggio. Altro che “agibilità politica”: roba da lotta per la sopravvivenza. Pensaci. Ma son sicuro che lo avrai già fatto.

PS. Matteo Renzi deve avere molta poca dimestichezza coi vettori. “Cambiare verso”, da solo, vuol dire poco, se non cambi anche la direzione. Vuol dire che invece di andare da Bari a Bologna vai da Bologna a Bari, ma, appunto, percorrendo la stessa strada. È la direzione che doveva cambiare. Si vede che era troppo occupato a pensare all’unica direzione che conosce, quella nazionale del partito, quella che con un esito bulgaro ha legittimato un altro attentato politico tra democratici, il secondo in meno di un anno, senza peraltro spiegare agli elettori le vere ragioni politiche del gesto. Sempre che ce ne fossero.

Ti abbraccio

Valerio

Maradona presidente del PDL

“E’ un altro spot pubblicitario: ho subito una persecuzione nel paese delle tasse“.

Discriminazioni territoriali

La bacheca Facebook di Matteo Salvini è un mondo fantastico, e leggerla è meglio di un giro sull’autoscontro.

La notizia sportiva del giorno è la squalifica di quattro turni a Philippe Mexes e la prossima gara casalinga del Milan, quella con l’Udinese, da disputarsi a porte chiuse per “discriminazione territoriale” (e in questo senso, le squadre italiane hanno iniziato malissimo la stagione).

Tutto ciò, ovviamente, al tifoso milanista Salvini non va per niente bene. È che proprio non si riesce a individuare il bersaglio dell’invettiva salviniana, però, dal momento che delle squalifiche nel mondo dello sport se ne occupa il giudice sportivo, e non si capisce come un giudice sportivo possa occuparsi delle “discriminazioni vere, che colpiscono la povera gente, fuori dagli stadi, tutti i giorni del mese!”.

E dire che in passato Matteo Salvini l’atmosfera da stadio ha dimostrato di conoscerla bene.

Il paradosso dell’alunno

Che la Lega possa lanciare proposte sulla scuola è quantomeno singolare, visti gli scintillanti curriculum di alcuni suoi ex dirigenti.
Ma Matteo Salvini, europarlamentare, accetta di avventurarsi in questo campo e riporta sulla sua bacheca Facebook la proposta del suo partito.
“Bambini stranieri a scuola solo se prima imparano la lingua italiana”. “Ovvio, di buon senso, quasi banale”, aggiunge. E certo.

Caro Salvini, un bambino frequenta la prima elementare a sei anni. Dai tre ai cinque anni può anche andare all’asilo, ma che io ricordi, la scuola dell’infanzia non è obbligatoria: è più una preparazione alla scuola primaria, ed è difficile che si possano imparare a tre anni le nozioni di una lingua non tua al punto tale da permetterti di passare un test.
Ma supponiamo per assurdo che passi la proposta della Lega. Ora, come fa un bambino straniero, con genitori stranieri, a imparare la lingua italiana al punto da tale da essere ammesso a scuola se non ha interazioni con italiani (nel suo caso, coi suoi coetanei)? Come dovrebbe imparare la lingua italiana rimanendo a contatto con persone che parlano solo la lingua del proprio paese d’origine? Restando incollato alla tv? E quali dovrebbero essere i suoi insegnanti? I doppiatori dei cartoni animati? Fabio Caressa e Beppe Bergomi?

Altro non sembra che una variazione sul tema di quanto già proposto dalla stessa Lega durante l’ultimo governo Berlusconi, le mitiche classi ponte per gli alunni stranieri (che, infatti, nel 2008 furono bocciate da molti linguisti). Lo scopo? Rendere sempre più difficoltosa l’integrazione degli alunni “non italofoni”.

La proposta della Lega sembra paradossale, nel vero senso della parola. Paradossale perchè, in senso lato, ricorda il “paradosso del barbiere” di Bertrand Russell (e che, dato il contesto, potremmo ribattezzare il “paradosso dell’alunno”). Parafrasando Russell, “un alunno che non conosce la lingua italiana non va a scuola”, ma “un alunno che non va a scuola non conosce la lingua italiana”.

Poi, certo, sarebbe simpatico se Matteo Salvini rispondesse all’obiezione che gli fa su Facebook un utente. Come la mettiamo con chi si laurea in Albania senza conoscere l’albanese?

Botta e risposta

Anzi, Boccia e risposta.

E sì, perchè sulla nuova sconfitta del PD in tema di IMU Gad Lerner attribuisce delle responsabilità ben precise a Francesco Boccia.
Che però dà una sua versione dei fatti, anche piuttosto diversa.

“Ma io scherzavo!”

Dunque, Berlusconi ordina ai suoi ministri di dimettersi, ufficialmente per la querelle PDL-PD – più che altro, PDL-Saccomanni – sull’aumento dell’Iva dal 21% al 22%, in realtà per l’irrisolta questione-decadenza (alla faccia di chi dice che le sue questioni personali non avrebbero interferito con la vita dell’esecutivo).
Con questa mossa, B. pensava di poter tentare l’ennesimo braccio di ferro con Enrico Letta, ma è stato prima sfidato da un manipolo di ex fedelissimi di provenienza varia (ciellini e alcuni degli stessi ministri: Quagliariello, Lupi, Formigoni, Giovanardi, con in prima fila Alfano), e poi costretto a una giravolta in aula annunciando la fiducia del PDL al governo Letta con la sorpresa dei suoi stessi senatori.

Le dimissioni erano state imposte da B. alla rappresentanza di governo del PDL, e anche due fedelissime del Cav come Michaela Biancofiore e Simona Vicari eseguono l’ordine e formalizzano la stessa decisione, pur essendo “solo” sottosegretarie.

Dal voto di fiducia al governo scaturisce un’affermazione del duo Letta-Alfano sulla componente dei “lealisti” del PDL che originariamente avevano seguito Berlusconi nel suo voler negare la fiducia all’esecutivo, e la formazione di governo rimane la stessa. O quasi. E sì, perchè con tutti i colleghi di partito che hanno ritrovato la loro poltrona, solo la Biancofiore si è vista togliere le deleghe.

Quello che è successo non è molto chiaro. Enrico Letta dice che tutti i ministri, in seguito, hanno ritirato le dimissioni. Al contrario, secondo un’incazzatissima Biancofiore (che parla addirittura di “mobbing”), stando ad alcune agenzie di stampa i ministri non avrebbero affatto ritirato le dimissioni. Simona Vicari si mantiene più diplomatica, ma spiega come anche a lei abbiano suggerito di ritirare le dimissioni, avvalorando dunque la posizione di Letta sul tema, pur chiedendo un reintegro della collega.

Indipendentemente dalle dinamiche di questa faccenda, c’è una posizione che è totalmente inaccettabile. Quella di Michaela Biancofiore. Non puoi presentare una lettera di dimissioni che nessuno, eccezion fatta per B., ti ha obbligato a presentare, salvo poi lamentarti del fatto che questa domanda sia stata accolta. Oltre che essendo un comportamento del tutto strumentale (ma strumentale nel peggior modo possibile, quel modo che costringe il tuo interlocutore ad assecondarti, pena un’infinita serie di ricatti politici), è da TSO.

Con un quadro politico interno al PDL ancora molto incerto, c’è un’unica cosa che mi lascia molto contento. Il disarcionamento dell’amazzone. Non per qualcosa di personale contro l’ex sottosegretario (che, peraltro, si era già brillantemente distinta) o perchè ritenga questo un governo di alto profilo e dunque non degno di ospitare personaggi del livello della bolzanina. Ma solo perchè da adesso in poi, probabilmente, qualcuno ci penserà su un attimo prima di presentare una lettera di dimissioni al solo scopo di tirare qualcuno per la giacchetta.

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