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Regionali. Il PD ha un occhio pesto

Dopo che Matteo Renzi sabato ha violato il silenzio elettorale per ribadire come queste regionali avessero “valenza locale” e non fossero un test per il governo (allora non si capisce per quale motivo il governo si senta legittimato nella sua azione dal risultato delle elezioni europee dell’anno scorso, sbandierando in continuazione quel 40,8%. Quelle elezioni erano un test per il governo e queste no?), a urne ormai chiuse, quando si parlava solo sulla base di exit poll, il mantra ufficiale dello stato maggiore renziano è tornato ad essere “colpire Pastorino (e Cofferati, e Civati)”. Deve essere per questo che Orfini e Rosato si sono presentati davanti alle telecamere per accusare Luca Pastorino della mancata vittoria del PD in Liguria – chissà, forse Pastorino è responsabile del risultato tremendo anche in Veneto. Da allora, in tanti a recitare la poesia imparata a memoria.

Eppure, a me questo sembra un ragionamento stupido e arrogante.
Stupido perché la presenza di forze a sinistra del PD (dove ormai di spazio ce n’è) era stata abbondantemente messa in conto di Renzi, e perché quei voti espressi per Pastorino non sono gli stessi che mancano alla Paita. In buona parte hanno lo stesso DNA, certo, ma sono persone deluse dal PD nazionale e regionale, e che senza la proposta di Pastorino avrebbero alimentato il partito dell’astensione o avrebbero fatto scelte diverse (penso al M5S, che continua a intercettare voti – tanti voti – senza una marcata radice ideologica). Solo una piccola parte, penso, avrebbe scelto la Paita, turandosi tutto ciò che ci si poteva turare.
Arrogante, poi, perché denunci un “furto” di qualcosa di cui che non è affatto di tua proprietà (al massimo è comodato d’uso. Tipo il decoder di Sky). Quei voti non sono nè del PD nè della Paita, così come non sono di Luca Pastorino. Sono degli elettori. Elettori a cui il PD continua a proporre politiche e ricette per le quali Alfano esulta. In fatto di ambiente, lavoro, scuola, lotta alle disuguaglianze, sì che quello del PD è stato un #cambiaverso. Beh, e pretendete che gli elettori (anche quelli storici. Prendete me: mica mi ha fatto piacere, da un anno a questa parte, smettere di votare PD. Ma continuare sarebbe stato impossibile) continuino a votarvi?

Cosa avrei detto a Bologna

Caro Pippo,
mi sarebbe piaciuto molto essere domani a Bologna, ma sarò impegnato ai seggi perché, come sai, a Bari ci sono le primarie del centrosinistra per decidere il candidato sindaco di coalizione, e dunque ti scrivo qui quello che ti avrei detto davanti a un caffè, che lo sai che parlare in pubblico mi riesce proprio difficile.

Sono stato molto combattuto, nei giorni scorsi, e lo sono ancora. Da elettore prima e iscritto poi, non ho ancora capito perché Renzi abbia di fatto sfiduciato Letta, dopo che fino a venti giorni fa nulla lasciasse presagire questo epilogo, a parte qualche “scossa di assestamento”. E aspetto che qualcuno me lo spieghi.

Siccome su alcuni punti ho una posizione più precisa mentre su altri sono ancora confuso, ti butto giù qualche riflessione, così come mi vengono, chissà, magari scrivendotele me le chiarisco io per primo:

***

a) Non ti invidio

Si può non invidiare un deputato? Secondo me sì. Sì, perché al di là della retorica anti-kasta e di quella anti-anti-kasta, sono gli uomini che fanno la storia. E la fanno con le loro azioni: non con i privilegi, non con le poltrone, non con la scorta che ti accompagna all’Ikea, non con le monetine del Raphael. E queste azioni, se compiute in solitudine (o quasi), assumono un contorno e un’eco diversi.

Come dice il terzo principio della dinamica, “a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. Solo che questo non vale solo per la fisica, come quando spari col fucile (azione) e subisci il rinculo (reazione). Vale sempre. Pure in politica. Come, ad esempio, il non votare la fiducia al governo Renzi (azione) e l’uscire dal PD o l’essere cacciati (reazione). A livello personale, la tua scelta definitiva sarà quasi drammatica, qualunque questa sia. “Voto no ed esco?”. “Voto no e rimango?”. “Voto sì per disciplina di partito, ma mi prendo i vaffanculo e le ironie, mi sento dire che sono sceso a patti con Renzi e lancio su twitter un secondo #insultacivati?”. Non vorrei essere nei tuoi panni.

Nell’ultimo anno, per ragioni personali, più volte mi è capitato di dover riflettere sul dolore (e qui mi dirai “Leggiti Julian Barnes, che l’ho scritto cento volte”). Anche in termini meno comuni, quasi algebrici. In occasione di un bruttissimo momento che ha coinvolto me e molti amici, mi son chiesto se un dolore ripartito tra più persone fosse più una moltiplicazione o una divisione del dolore di ognuno. Ad oggi ancora non so rispondermi. Secondo me non c’è paragone tra il dolore dovuto alla perdita di qualcuno e il dolore che può esserci dietro il compiere una scelta, ma il concetto alla base è lo stesso. E se da una parte devo ancora capire se un dolore condiviso sia più forte o più “diluito”, d’altra parte un dolore, qualsiasi dolore, in forma privata, è centomila volte più grande. Dunque mi immedesimo in te, con molto rispetto.

***

b) questione-fiducia

Se fossimo a X Factor ti direi “Per me è no”, qualunque cosa succeda. E questo, a riprova che non era una questione personale nei confronti di Enrico Letta, ma che era lo schema riproposto delle larghe intese ad essere particolarmente indigesto (fino a febbraio il refrain della campagna elettorale della coalizione “Italia bene comune” era “Mai con Berlusconi!”, salvo poi una clamorosa inversione a U, senza consultazione degli iscritti e con risvolti tragicomici), oltre che infruttuoso (come diavolo fai a parlare di ambiente, di fisco più equo, di diritti, di legalità con gente che proponeva condoni edilizi e fiscali, che disse che Eluana Englaro fu ammazzata e che occupò le scale del tribunale di Milano?).

E quello che è successo tra aprile e maggio, in piena emergenza, e che poteva/doveva essere un governo di scopo (ma non lo fu), con due cose urgentissime da fare e poi di nuovo alle urne, si è trasformato in un governo politicissimo con obiettivo fine legislatura. Non fa niente che la maggioranza sia la stessa del “potrebbe cadere il governo” a giorni alterni (è vero, Forza Italia è uscita, ma a Renzi ha dato “assoluta disponibilità”): l’obiettivo è star lì quattro anni.

E tanto per esser chiari, qui nessuno vuole tirare i piedi a Matteo Renzi: solo, ci si lascia andare a previsioni neanche così difficili da fare. È come se andassi allo stadio per vedere Bari-Real Madrid: non è che tifo contro la mia squadra, è che penso prenderà un sacco di mazzate.

***

c) “Esco o non esco?”

Sono iscritto a questo partito da maggio. Poco prima, in rapida sequenza, le elezioni non vinte, i primi tentennamenti, la proposta-Marini (giustamente, e apertamente) cassata, la proposta-Rodotà (follemente) trascurata, l’assassinio politico di Prodi, i 101 incappucciati che ancora si vergognano di fare coming out (o di costituirsi), il Capranica, le dimissioni della segreteria Bersani, il Napolitano bis, Letta che da numero due del PD diventa numero uno del governo, le larghe intese, Occupy PD. Il 20 aprile 2013, quando venne definitivamente affossato Rodotà e nacque il Napolitano-bis, ero con Rodotà, perché quel giorno era a Bari, al Petruzzelli.

Mi sono iscritto al PD per la rabbia e la vergogna che il partito che fino ad allora votavo mi aveva fatto provare. Io mi vergognavo per loro, loro non penso si vergognassero di nulla – in questo, Anna Finocchiaro che “non so che cosa vogliono questi signori” – è emblematica.

Mi sono tesserato (anche, ma non solo) per “colpa” tua e della famosa “tessera nonostante”, perché c’erano cose da cambiare, temi da affrontare, congressi da vincere. E anche perché ho sempre sostenuto che una battaglia fatta da fuori sarà senz’altro importante e sicuramente “romantica”, ma prosaicamente non ti cambia l’esito della guerra perché da fuori molto difficilmente puoi influire, puoi contare qualcosa.

Non sono mai stato un elettore (prima) e un iscritto (dopo) “ortodosso”, col partito da difendere a tutti i costi. Quando il partito ha sbagliato l’ho sempre sottolineato, perché trovo molto immaturo difendere per partito preso – è il caso di dire – qualcuno che sbaglia ripetutamente. Inizialmente non vedevo altre alternative allo starci dentro, come unico modo per cercare di indirizzare il timone della barca. Oggi, dopo un congresso andato com’è andato (ma partendo da zero) e una minoranza che è tale solo sui giornali, visto che in direzione vota con la maggioranza del partito per una poltrona in più, ho certezze meno granitiche. Però.

Però non posso non tornare alla mitica “tessera nonostante” di cui sopra, e adesso ti dico perché. Secondo me, la politica fatta per il gusto di farla e per amore di una comunità è generosità allo stato puro. Dall’alzare e abbassare la saracinesca del circolo al creare occasioni di ascolto nel quartiere al rinunciare a stare con la tua famiglia perché hai l’assemblea cittadina.

Non mi sento un militante, mi sento più un iscritto, e proprio per questo guardo con molto rispetto chi dona il suo tempo agli altri. Però il tuo appello di maggio è stato un appello alla generosità. Come quando succede qualche disastro e si conta sulla generosità e sul senso di appartenenza a una comunità della gente piuttosto che su una risposta “centrale”. Penso agli alluvioni in Italia, con la gente che si prodiga dalle altre regioni, nonostante il manicheismo geografico “Nord vs Sud” creato da una classe politica di terz’ordine e non soppiantato, proprio in termini di operazioni culturali, da un’altra classe politica che non si è dimostrata così tanto migliore. Ma penso anche a Telethon, a cui ogni anno gli italiani versano soldini perché “lo stato taglia i fondi alla ricerca e io ho quel mio parente che sta male, dunque dieci euro glieli do io, a Telethon”. Beh, quella tua chiamata alle armi è stata la stessa cosa. Un appello a quegli “angeli del fango” della politica che venissero a togliere detriti, macerie e incrostazioni da un partito alla deriva e preda di guerre intestine e vendette trasversali.

Penso al tuo appello e guardo il mio circolo. Come me, si sono iscritti Gianluca e Gianni, uno verso aprile, l’altro a ottobre. A febbraio avevano votato SEL. Un altro amico di un altro circolo, Roberto, si è tesserato con me, a maggio, ma a febbraio aveva votato Ingroia. È tutta gente che riconosceva nel PD l’architrave di una coalizione di centrosinistra (quando ancora c’era, quella coalizione), ma che piuttosto che iscriversi si sarebbe fatta togliere un dente senza anestesia. Eppure si sono iscritti, per cercare di cambiare questo benedetto partito da dentro. Se dovessi prendere per buono l’esito del congresso, dovrei dire che non ci siamo riusciti. Ma abbiamo gettato un seme.
È per rispetto verso questa gente che, secondo me, non dovresti uscire (almeno, di tua spontanea volontà). E bada bene: non te lo dico più perché io sia così convinto della maggiore incisività di un’azione dall’interno (ci vedo molto poco margine di manovra, ormai). Ma solo perché dovresti ricambiare il gesto. Non puoi far avvicinare a un partito chi quel partito lo andava scansando come la peste, e poi uscirne tu. E molti di questi neoiscritti adesso non sono solo semplici tesserati, ma sono membri di organi direttivi. Che facciamo, dissodiamo il terreno e iniziamo a seminare, ma ce ne fottiamo di innaffiare le piantine? Avremmo buttato tempo.

Ancora più prosaicamente: converrebbe, un’uscita? Per far cosa? Per diventare, come diceva qualcuno, se va bene, Vendola, se va male, Ingroia? Chi raccoglieremmo, con un nuovo soggetto politico al di fuori del PD? quattro grillini e qualche SELlino? Forse. Ma temo perderemmo molti attuali iscritti al PD.
Ti ripeto: non sono più così convinto della maggiore incisività dall’interno e della capacità del PD di autorinnovarsi. Ma temo che lo scenario fuori potrebbe essere ancora peggio. Altro che “agibilità politica”: roba da lotta per la sopravvivenza. Pensaci. Ma son sicuro che lo avrai già fatto.

PS. Matteo Renzi deve avere molta poca dimestichezza coi vettori. “Cambiare verso”, da solo, vuol dire poco, se non cambi anche la direzione. Vuol dire che invece di andare da Bari a Bologna vai da Bologna a Bari, ma, appunto, percorrendo la stessa strada. È la direzione che doveva cambiare. Si vede che era troppo occupato a pensare all’unica direzione che conosce, quella nazionale del partito, quella che con un esito bulgaro ha legittimato un altro attentato politico tra democratici, il secondo in meno di un anno, senza peraltro spiegare agli elettori le vere ragioni politiche del gesto. Sempre che ce ne fossero.

Ti abbraccio

Valerio

Maradona presidente del PDL

“E’ un altro spot pubblicitario: ho subito una persecuzione nel paese delle tasse“.

Il paradosso dell’alunno

Che la Lega possa lanciare proposte sulla scuola è quantomeno singolare, visti gli scintillanti curriculum di alcuni suoi ex dirigenti.
Ma Matteo Salvini, europarlamentare, accetta di avventurarsi in questo campo e riporta sulla sua bacheca Facebook la proposta del suo partito.
“Bambini stranieri a scuola solo se prima imparano la lingua italiana”. “Ovvio, di buon senso, quasi banale”, aggiunge. E certo.

Caro Salvini, un bambino frequenta la prima elementare a sei anni. Dai tre ai cinque anni può anche andare all’asilo, ma che io ricordi, la scuola dell’infanzia non è obbligatoria: è più una preparazione alla scuola primaria, ed è difficile che si possano imparare a tre anni le nozioni di una lingua non tua al punto tale da permetterti di passare un test.
Ma supponiamo per assurdo che passi la proposta della Lega. Ora, come fa un bambino straniero, con genitori stranieri, a imparare la lingua italiana al punto da tale da essere ammesso a scuola se non ha interazioni con italiani (nel suo caso, coi suoi coetanei)? Come dovrebbe imparare la lingua italiana rimanendo a contatto con persone che parlano solo la lingua del proprio paese d’origine? Restando incollato alla tv? E quali dovrebbero essere i suoi insegnanti? I doppiatori dei cartoni animati? Fabio Caressa e Beppe Bergomi?

Altro non sembra che una variazione sul tema di quanto già proposto dalla stessa Lega durante l’ultimo governo Berlusconi, le mitiche classi ponte per gli alunni stranieri (che, infatti, nel 2008 furono bocciate da molti linguisti). Lo scopo? Rendere sempre più difficoltosa l’integrazione degli alunni “non italofoni”.

La proposta della Lega sembra paradossale, nel vero senso della parola. Paradossale perchè, in senso lato, ricorda il “paradosso del barbiere” di Bertrand Russell (e che, dato il contesto, potremmo ribattezzare il “paradosso dell’alunno”). Parafrasando Russell, “un alunno che non conosce la lingua italiana non va a scuola”, ma “un alunno che non va a scuola non conosce la lingua italiana”.

Poi, certo, sarebbe simpatico se Matteo Salvini rispondesse all’obiezione che gli fa su Facebook un utente. Come la mettiamo con chi si laurea in Albania senza conoscere l’albanese?

Botta e risposta

Anzi, Boccia e risposta.

E sì, perchè sulla nuova sconfitta del PD in tema di IMU Gad Lerner attribuisce delle responsabilità ben precise a Francesco Boccia.
Che però dà una sua versione dei fatti, anche piuttosto diversa.

“Ma io scherzavo!”

Dunque, Berlusconi ordina ai suoi ministri di dimettersi, ufficialmente per la querelle PDL-PD – più che altro, PDL-Saccomanni – sull’aumento dell’Iva dal 21% al 22%, in realtà per l’irrisolta questione-decadenza (alla faccia di chi dice che le sue questioni personali non avrebbero interferito con la vita dell’esecutivo).
Con questa mossa, B. pensava di poter tentare l’ennesimo braccio di ferro con Enrico Letta, ma è stato prima sfidato da un manipolo di ex fedelissimi di provenienza varia (ciellini e alcuni degli stessi ministri: Quagliariello, Lupi, Formigoni, Giovanardi, con in prima fila Alfano), e poi costretto a una giravolta in aula annunciando la fiducia del PDL al governo Letta con la sorpresa dei suoi stessi senatori.

Le dimissioni erano state imposte da B. alla rappresentanza di governo del PDL, e anche due fedelissime del Cav come Michaela Biancofiore e Simona Vicari eseguono l’ordine e formalizzano la stessa decisione, pur essendo “solo” sottosegretarie.

Dal voto di fiducia al governo scaturisce un’affermazione del duo Letta-Alfano sulla componente dei “lealisti” del PDL che originariamente avevano seguito Berlusconi nel suo voler negare la fiducia all’esecutivo, e la formazione di governo rimane la stessa. O quasi. E sì, perchè con tutti i colleghi di partito che hanno ritrovato la loro poltrona, solo la Biancofiore si è vista togliere le deleghe.

Quello che è successo non è molto chiaro. Enrico Letta dice che tutti i ministri, in seguito, hanno ritirato le dimissioni. Al contrario, secondo un’incazzatissima Biancofiore (che parla addirittura di “mobbing”), stando ad alcune agenzie di stampa i ministri non avrebbero affatto ritirato le dimissioni. Simona Vicari si mantiene più diplomatica, ma spiega come anche a lei abbiano suggerito di ritirare le dimissioni, avvalorando dunque la posizione di Letta sul tema, pur chiedendo un reintegro della collega.

Indipendentemente dalle dinamiche di questa faccenda, c’è una posizione che è totalmente inaccettabile. Quella di Michaela Biancofiore. Non puoi presentare una lettera di dimissioni che nessuno, eccezion fatta per B., ti ha obbligato a presentare, salvo poi lamentarti del fatto che questa domanda sia stata accolta. Oltre che essendo un comportamento del tutto strumentale (ma strumentale nel peggior modo possibile, quel modo che costringe il tuo interlocutore ad assecondarti, pena un’infinita serie di ricatti politici), è da TSO.

Con un quadro politico interno al PDL ancora molto incerto, c’è un’unica cosa che mi lascia molto contento. Il disarcionamento dell’amazzone. Non per qualcosa di personale contro l’ex sottosegretario (che, peraltro, si era già brillantemente distinta) o perchè ritenga questo un governo di alto profilo e dunque non degno di ospitare personaggi del livello della bolzanina. Ma solo perchè da adesso in poi, probabilmente, qualcuno ci penserà su un attimo prima di presentare una lettera di dimissioni al solo scopo di tirare qualcuno per la giacchetta.

La doppia morale a Cinque Stelle

Non mi è mai piaciuto offendere o ironizzare su qualcuno in difficoltà. E non perchè sia un boy scout o perchè passi il tempo libero ad aiutare anziani ad attraversare sulle strisce: solo per carattere. Certo, magari una caduta goffa fa ridere, ma generalmente mi interessa di più chiedere a chi è inciampato se si è fatto male.

Viste queste premesse, figuriamoci quale possa essere il mio punto di vista su chi ironizzi su una persona con problemi di salute. Parlo, ovviamente, di ciò che è successo a Matteo Dall’Osso l’altra notte in aula.
Come “attenuante generica” al comportamento dei deputati di PD e Scelta Civica che l’hanno deriso, devo pensare che potessero non conoscere le condizioni di salute del loro collega: una punzecchiatura, anche un po’ cretina, tra colleghi che non si vedono di buon occhio ci può pure stare, uno sfottò verso qualcuno in difficoltà e di cui si conoscono le reali condizioni no, mai.
È per questo, per quel po’ che vale, che esprimo tutta la mia solidarietà al deputato Dall’Osso e la mia condanna a deputati che forse pensavano di essere allo stadio o al Bar Sport: le “attenuanti” forse possono provare a fornire una spiegazione al gesto, certo non a giustificarlo.

C’è però un altro punto, anche piuttosto scivoloso. Sul proprio blog, c’è qualcuno che da Genova “si costerna, s’indigna, s’impegna” per quanto successo a un suo deputato. Tutto giusto, tutto sacrosanto. Se non fosse, però, che questa persona, insieme ai suoi parlamentari, è la stessa persona che ironizzava sulla “tenuta” del Presidente della Repubblica, classe 1925. Un ottantottenne. “Morfeo”, “Abbiamo tenuto sveglio Napolitano”, “Si goda i nipotini”.
Senza dimenticare l’ironia, se così si può chiamare, sui difetti fisici degli avversari (“psiconano” non l’ho inventato certo io. E peraltro, non mi sembra che Grillo abbia mai partecipato allo Slam Dunk Contest). Espressioni che neanche alla festa della Lega in qualche paesino del bergamasco.

L’ironia e la mancanza di rispetto nei confronti di persone anziane (e sto volutamente ignorando il ruolo istituzionale) e di persone con difetti fisici non sono meno gravi, per quanto mi riguarda, dell’ironia nei confronti di persone malate.
E dunque, caro Grillo, non puoi permetterti di fare la morale.

Commenti a Cinque Stelle

Non la vedo più io, o dal blog di Beppe Grillo è stata rimossa l’opzione “commenti più votati”?

In questi mesi così caldi, per il M5S e in generale per tutta la politica italiana (ventiquattr’ore fa, la sparata di ieri contro la senatrice Gambaro), la voce “commenti più votati” era una cartina di tornasole utile a capire che aria tirasse fra i grillini. E in quanto tale, forse scomoda: non di rado, a fronte di post sempre più belligeranti contro tutto e tutti, buona parte dei simpatizzanti a Cinque Stelle non le mandava a dire a Grillo.

Tutto ciò, fino ad oggi, o fin quando è stato deciso questo giro di vite.

E dire che c’è ancora chi attende la piattaforma Liquid Feedback annunciata da Grillo (e i “Pirati” tedeschi, che l’hanno brevettata e che hanno anche qualche punto in comune col M5S, non esprimono giudizi particolarmente lusinghieri nei confronti del Movimento).

Ma mettetevi comodi, vedrete che arriverà.

#101motiviPD

#101motiviPD

Fino al 19 aprile, il numero 101 mi faceva pensare a due cose: ai cuccioli di dalmata nel cartone animato della Disney e a un fantastico live dei Depeche Mode al Rose Bowl di Pasadena (con annesso docu-film tratto da quel concerto).

Dal 19 aprile quel numero, almeno per gli elettori di centrosinistra, è diventato un marchio di infamia. Almeno tanti, infatti, sono stati i franchi tiratori che nel PD non hanno votato Romano Prodi al quarto scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica.

Nell’evento del 24 maggio a Bari, con Pippo Civati e Antonio Decaro, vorremmo restituire un’accezione positiva al 101, cercando altrettanti motivi per non affossare ulteriormente il PD. Pippo e Antonio prenderanno appunti, cercando di individuare una terapia da somministrare a un paziente che non se la passa tanto bene. Facciamolo tutti.

La mozione Poborsky

Chi mi conosce bene sa quanto io ami lo sport. Sono un telespettatore onnivoro: seguo quasi tutto (a parte qualche “incidente di percorso” come, che ne so, il curling), anche se tendo a essere abbastanza nazionalpopolare privilegiando calcio e basket.

E però, mi piace anche la politica. Tanto.

Dico “però” perchè, a me che piace trovare “ponti”, affinità, analogie anche tra mondi molto diversi tra loro (e sport e politica lo sono), stavolta ho voluto sottolineare le differenze.

Senza parlare di etica – persa spesso in entrambi i contesti, e di esempi ne avremmo tanti – e oltre a quelle differenze facilmente intuibili, ce n’è una su tutte che secondo me è un punto chiave. La partecipazione e la fidelizzazione.

Generalmente te lo ricordi, il momento in cui diventi tifoso di una squadra di calcio. Che possa essere la squadra della tua città, che possa essere una delle “big” (se non abiti a Milano o Torino, le due cose non coincidono), ricordi il periodo e le ragioni.
Io che sono barese e che sono – e sarò – tifoso del Bari, ricordo quando diventai simpatizzante dell’Inter. Era la stagione 1993-1994, l’ultima di Ernesto Pellegrini, una stagione maledetta e stranissima: salvi alla penultima giornata in campionato, a un solo punto dalla retrocessione, ma vincitori della Coppa Uefa col Salisburgo. Col senno di poi avrei dovuto farmi qualche domanda.
Era l’anno di Dennis Bergkamp e Wim Jonk: uno salutato come il nuovo Messia e degna fotografia della squadra (deludente in campionato, decisivo e capocannoniere in Europa. Ma ebbe modo di darmi soddisfazioni quando passò all’Arsenal, diventando uno dei più grandi giocatori dei Gunners e della Premier League degli ultimi vent’anni), l’altro un onesto centrocampista col vizio del gol. Sarà proprio Jonk a decidere il ritorno a San Siro con gli austriaci, dopo lo 0-1 a Vienna targato Berti.

Quel gol non portò solo la Coppa Uefa a Milano. No. Portò anche un tifoso in più all’Inter. Il sottoscritto. Mi ero già avvicinato alla squadra proprio durante l’avventura in Europa, ma quella fu la consacrazione. Come ogni bambino, fui attratto da una squadra vincente: a dieci anni non capisci se una squadra gioca bene o meno, se è aiutata o sfavorita dagli arbitri e dalla sorte, se ha raggiunto gli obiettivi prefissati o se è stata la stagione è stata un fiasco totale (e vista quell’annata, meglio così).
Sono tre i principali motivi per cui da bambini si diventa tifosi di una squadra: i colori della divisa (motivo molto più diffuso si quanto pensassi), il fatto che questa squadra vinca e il fatto che ci giochi un tuo idolo. Lo sport ti fidelizza, per lo più da piccolo, quando le cose vanno bene. Da allora in poi condividerai quella fede con altri romantici, innamorati, disperati come te, e stavolta per davvero “nella salute e nella malattia”.

Anche in politica un partito in cui credi e che goda di ottima salute può invogliarti a farne parte. Ma c’è un’eccezione grossa così.

In politica quando mai si è visto che una squadra che esca con le ossa rotte da una competizione venga subissata dall’affetto e dall’entusiasmo dei suoi supporter? Mai, diciamocelo. Al contrario, sono molto più comuni i riposizionamenti e i cambi di casacca (e questi nello sport sono più rari). E non parlo di quelli per fair play a fine partita. Sul carro del vincitore, in politica, non si trova mai posto. È tipo un pullman scoperto, con tanti tifosi saliti a festeggiare. Anche i tifosi dell’ultimissima ora.

Eppure, c’è un però.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a ogni tentativo di suicidio assistito da parte dei vertici PD. Roba che neanche nelle cliniche svizzere. Nell’ordine:
– una snervante querelle sulle regole delle primarie
– giustificazioni per chi non ha votato al primo turno ma vuole votare al secondo che nemmeno a scuola (di queste, accolto solo il 7% delle domande, e molte bocciate anche con motivi stupidi. Alla faccia della partecipazione)
– primarie per i parlamentari – che, se fatte bene, sono un’ottima idea – organizzate in dieci giorni, per di più tra Natale e Capodanno e con i famosi impresentabili poi esclusi dalle liste
– mazzate tra Bersani e Renzi fino a inizio dicembre, poi fair play, campagna elettorale con tacchini sui tetti e giaguari da smacchiare, #pdbrothers, Renzi portato in giro come il salvatore della patria, elezioni non-vinte, regolamenti di conti, vendette trasversali, 101 franchi tiratori, dimissioni di Bersani, Renzi di nuovo osteggiato (salvo poi riportarlo in giro nel Paese perchè tra qualche giorno in molti comuni si vota per le amministrative)
– dal “mai con Berlusconi” al governo con Berlusconi in un mese, a volte anche meno. E se nel governo con Berlusconi i ministri si chiamano Alfano, Lupi, Quagliariello, vuol dire che è Berlusconi che governa, non tu. Perchè in questo caso il tuo cognome, “Letta”, pesa molto più del tuo nome, “Enrico”
– un nuovo (?) segretario, scelto nella stanza dei bottoni da sei persone e la cui candidatura è stata l’unica presentata in assemblea nazionale, in continuità con la segreteria-Bersani e senza chiare indicazioni sul futuro (congresso come e quando? Aperto o chiuso? E soprattutto: tu, segretario, ti ricandidi? Fino al congresso sarai una safety-car o una vettura in gara?)

Il mio Bari, che come tutte le squadre piccole ha vissuto più bassi che alti, non penso abbia mai vissuto tragedie del genere. Neanche la stagione macchiata dal calcioscommesse e dalla retrocessione. L’unico dramma sportivo che riesco ad associare al calvario del PD è il 5 maggio. Non quello manzoniano: quello di Hector Cuper. Un naufragio, un’implosione totale. Una non-vittoria, per dirla alla Bersani, nonostante il doppio vantaggio, in classifica e nel parziale. Cioè, esattamente quello che è successo al PD a fine febbraio.

Nonostante il doppio tracollo, prima nelle urne, poi nella scelta del Presidente della Repubblica, buona parte dell’elettorato del PD ha deciso di non lasciare solo il partito, anzi (probabilmente per non consentire ancora a questi dirigenti di fare altri danni). E se da una parte si bruciavano le tessere in piazza, da un’altra parte nascevano germi di mobilitazione.

Mobilitazione collettiva, come quella che ha portato all’occupazione di tante sedi del PD sul territorio nazionale, e che descrive bene Giuseppe. Giuseppe è un mio caro amico, fa parte di OccupyPD Bari, ha partecipato al presidio fuori dall’assemblea PD a Roma, alla riunione nazionale di OccupyPD a Prato ed è intervenuto a Piazzapulita. Quando descrive OccupyPD, ne parla come di una “battaglia di generosità”. E fa bene, a mio avviso, poichè se già in condizioni normali chi si dedica a una qualsiasi attività impiega tempo e risorse che potrebbe dedicare ad altro, in questo caso questo discorso vale ancora di più, dato che vanno considerate riunioni domenicali o dopo una giornata di lavoro, tempo passato a scrivere documenti e a coordinare gli altri gruppi e perchè no, anche un po’ di soldini per la trasferte in tutta Italia.

Ma la mobilitazione può anche essere singola, personale. La descrive Lorenzo in una lettera sul blog di Pippo, che condivido in toto e che non avrei saputo scrivere meglio. Per inciso, è esattamente quello che ho fatto io: entrare nel circolo del mio quartiere, chiedere informazioni sul tesseramento, dire apertamente che volevo prendere la tessera “perchè sono incazzato”. Per me questa è la “mozione Poborsky”: un po’ come se un tifoso interista, piuttosto che allontanarsi dalla squadra dopo quel maledetto 5 maggio, avesse deciso di sottoscrivere un abbonamento e di passare dalla poltrona di casa al seggiolino di San Siro.

Perchè in fondo, quando ci sono di mezzo i sentimenti, è sempre una questione di generosità.

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