Archivio mensile:Maggio 2013

La Gabanelli e il Grillo

16 aprile 2013, dopo l’ufficializzazione dei risultati delle “quirinarie” del M5S.
Grillo: “La Gabanelli è una signora, che è contro tutti i poteri forti, che fa indagini meravigliose, no? Ce li ha contro tutti. Ho chiamato anche Di Pietro […] Di Pietro sarà meno contento. Mettere lì un nome così è un segnale fortissimo di cambiare radicalmente le cose”.
E sul blog, questi erano i commenti più votati.

Poi, dopo la discussa puntata di Report del 19 maggio sui finanziamenti ai partiti che prende in considerazione anche il finanziamento del M5S, qualcosa cambia. Due post di utenti ospitati sul blog, due post dello staff di Grillo, un post del gruppo del M5S alla Camera e un post di un senatore del M5S, Lello Ciampolillo (barese, già candidato sindaco nel 2009 per la lista civica Beppegrillo.it, 749 voti).

Tutto ciò, tralasciando gli attacchi degli utenti del blog a Milena Gabanelli.

Non mi sorprende particolarmente questo dietrofront grillino su Milena Gabanelli, da Giovanna d’Arco dell’informazione italiana a “pagata”, “serva dei padroni”, “asservita” e conduttrice di un “programma di m…”. La verità resta sempre quella: ergere a paladino qualcuno che faccia le pulci agli altri, ma che non metta il naso nei cazzi nostri.

#101motiviPD

#101motiviPD

Fino al 19 aprile, il numero 101 mi faceva pensare a due cose: ai cuccioli di dalmata nel cartone animato della Disney e a un fantastico live dei Depeche Mode al Rose Bowl di Pasadena (con annesso docu-film tratto da quel concerto).

Dal 19 aprile quel numero, almeno per gli elettori di centrosinistra, è diventato un marchio di infamia. Almeno tanti, infatti, sono stati i franchi tiratori che nel PD non hanno votato Romano Prodi al quarto scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica.

Nell’evento del 24 maggio a Bari, con Pippo Civati e Antonio Decaro, vorremmo restituire un’accezione positiva al 101, cercando altrettanti motivi per non affossare ulteriormente il PD. Pippo e Antonio prenderanno appunti, cercando di individuare una terapia da somministrare a un paziente che non se la passa tanto bene. Facciamolo tutti.

La mozione Poborsky

Chi mi conosce bene sa quanto io ami lo sport. Sono un telespettatore onnivoro: seguo quasi tutto (a parte qualche “incidente di percorso” come, che ne so, il curling), anche se tendo a essere abbastanza nazionalpopolare privilegiando calcio e basket.

E però, mi piace anche la politica. Tanto.

Dico “però” perchè, a me che piace trovare “ponti”, affinità, analogie anche tra mondi molto diversi tra loro (e sport e politica lo sono), stavolta ho voluto sottolineare le differenze.

Senza parlare di etica – persa spesso in entrambi i contesti, e di esempi ne avremmo tanti – e oltre a quelle differenze facilmente intuibili, ce n’è una su tutte che secondo me è un punto chiave. La partecipazione e la fidelizzazione.

Generalmente te lo ricordi, il momento in cui diventi tifoso di una squadra di calcio. Che possa essere la squadra della tua città, che possa essere una delle “big” (se non abiti a Milano o Torino, le due cose non coincidono), ricordi il periodo e le ragioni.
Io che sono barese e che sono – e sarò – tifoso del Bari, ricordo quando diventai simpatizzante dell’Inter. Era la stagione 1993-1994, l’ultima di Ernesto Pellegrini, una stagione maledetta e stranissima: salvi alla penultima giornata in campionato, a un solo punto dalla retrocessione, ma vincitori della Coppa Uefa col Salisburgo. Col senno di poi avrei dovuto farmi qualche domanda.
Era l’anno di Dennis Bergkamp e Wim Jonk: uno salutato come il nuovo Messia e degna fotografia della squadra (deludente in campionato, decisivo e capocannoniere in Europa. Ma ebbe modo di darmi soddisfazioni quando passò all’Arsenal, diventando uno dei più grandi giocatori dei Gunners e della Premier League degli ultimi vent’anni), l’altro un onesto centrocampista col vizio del gol. Sarà proprio Jonk a decidere il ritorno a San Siro con gli austriaci, dopo lo 0-1 a Vienna targato Berti.

Quel gol non portò solo la Coppa Uefa a Milano. No. Portò anche un tifoso in più all’Inter. Il sottoscritto. Mi ero già avvicinato alla squadra proprio durante l’avventura in Europa, ma quella fu la consacrazione. Come ogni bambino, fui attratto da una squadra vincente: a dieci anni non capisci se una squadra gioca bene o meno, se è aiutata o sfavorita dagli arbitri e dalla sorte, se ha raggiunto gli obiettivi prefissati o se è stata la stagione è stata un fiasco totale (e vista quell’annata, meglio così).
Sono tre i principali motivi per cui da bambini si diventa tifosi di una squadra: i colori della divisa (motivo molto più diffuso si quanto pensassi), il fatto che questa squadra vinca e il fatto che ci giochi un tuo idolo. Lo sport ti fidelizza, per lo più da piccolo, quando le cose vanno bene. Da allora in poi condividerai quella fede con altri romantici, innamorati, disperati come te, e stavolta per davvero “nella salute e nella malattia”.

Anche in politica un partito in cui credi e che goda di ottima salute può invogliarti a farne parte. Ma c’è un’eccezione grossa così.

In politica quando mai si è visto che una squadra che esca con le ossa rotte da una competizione venga subissata dall’affetto e dall’entusiasmo dei suoi supporter? Mai, diciamocelo. Al contrario, sono molto più comuni i riposizionamenti e i cambi di casacca (e questi nello sport sono più rari). E non parlo di quelli per fair play a fine partita. Sul carro del vincitore, in politica, non si trova mai posto. È tipo un pullman scoperto, con tanti tifosi saliti a festeggiare. Anche i tifosi dell’ultimissima ora.

Eppure, c’è un però.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a ogni tentativo di suicidio assistito da parte dei vertici PD. Roba che neanche nelle cliniche svizzere. Nell’ordine:
– una snervante querelle sulle regole delle primarie
– giustificazioni per chi non ha votato al primo turno ma vuole votare al secondo che nemmeno a scuola (di queste, accolto solo il 7% delle domande, e molte bocciate anche con motivi stupidi. Alla faccia della partecipazione)
– primarie per i parlamentari – che, se fatte bene, sono un’ottima idea – organizzate in dieci giorni, per di più tra Natale e Capodanno e con i famosi impresentabili poi esclusi dalle liste
– mazzate tra Bersani e Renzi fino a inizio dicembre, poi fair play, campagna elettorale con tacchini sui tetti e giaguari da smacchiare, #pdbrothers, Renzi portato in giro come il salvatore della patria, elezioni non-vinte, regolamenti di conti, vendette trasversali, 101 franchi tiratori, dimissioni di Bersani, Renzi di nuovo osteggiato (salvo poi riportarlo in giro nel Paese perchè tra qualche giorno in molti comuni si vota per le amministrative)
– dal “mai con Berlusconi” al governo con Berlusconi in un mese, a volte anche meno. E se nel governo con Berlusconi i ministri si chiamano Alfano, Lupi, Quagliariello, vuol dire che è Berlusconi che governa, non tu. Perchè in questo caso il tuo cognome, “Letta”, pesa molto più del tuo nome, “Enrico”
– un nuovo (?) segretario, scelto nella stanza dei bottoni da sei persone e la cui candidatura è stata l’unica presentata in assemblea nazionale, in continuità con la segreteria-Bersani e senza chiare indicazioni sul futuro (congresso come e quando? Aperto o chiuso? E soprattutto: tu, segretario, ti ricandidi? Fino al congresso sarai una safety-car o una vettura in gara?)

Il mio Bari, che come tutte le squadre piccole ha vissuto più bassi che alti, non penso abbia mai vissuto tragedie del genere. Neanche la stagione macchiata dal calcioscommesse e dalla retrocessione. L’unico dramma sportivo che riesco ad associare al calvario del PD è il 5 maggio. Non quello manzoniano: quello di Hector Cuper. Un naufragio, un’implosione totale. Una non-vittoria, per dirla alla Bersani, nonostante il doppio vantaggio, in classifica e nel parziale. Cioè, esattamente quello che è successo al PD a fine febbraio.

Nonostante il doppio tracollo, prima nelle urne, poi nella scelta del Presidente della Repubblica, buona parte dell’elettorato del PD ha deciso di non lasciare solo il partito, anzi (probabilmente per non consentire ancora a questi dirigenti di fare altri danni). E se da una parte si bruciavano le tessere in piazza, da un’altra parte nascevano germi di mobilitazione.

Mobilitazione collettiva, come quella che ha portato all’occupazione di tante sedi del PD sul territorio nazionale, e che descrive bene Giuseppe. Giuseppe è un mio caro amico, fa parte di OccupyPD Bari, ha partecipato al presidio fuori dall’assemblea PD a Roma, alla riunione nazionale di OccupyPD a Prato ed è intervenuto a Piazzapulita. Quando descrive OccupyPD, ne parla come di una “battaglia di generosità”. E fa bene, a mio avviso, poichè se già in condizioni normali chi si dedica a una qualsiasi attività impiega tempo e risorse che potrebbe dedicare ad altro, in questo caso questo discorso vale ancora di più, dato che vanno considerate riunioni domenicali o dopo una giornata di lavoro, tempo passato a scrivere documenti e a coordinare gli altri gruppi e perchè no, anche un po’ di soldini per la trasferte in tutta Italia.

Ma la mobilitazione può anche essere singola, personale. La descrive Lorenzo in una lettera sul blog di Pippo, che condivido in toto e che non avrei saputo scrivere meglio. Per inciso, è esattamente quello che ho fatto io: entrare nel circolo del mio quartiere, chiedere informazioni sul tesseramento, dire apertamente che volevo prendere la tessera “perchè sono incazzato”. Per me questa è la “mozione Poborsky”: un po’ come se un tifoso interista, piuttosto che allontanarsi dalla squadra dopo quel maledetto 5 maggio, avesse deciso di sottoscrivere un abbonamento e di passare dalla poltrona di casa al seggiolino di San Siro.

Perchè in fondo, quando ci sono di mezzo i sentimenti, è sempre una questione di generosità.

Nel nome di Guy Fucks

image

Secondo Left (n. 19, 18 maggio 2013, articolo di Musella a pag.30), è lui il paladino nel nome del quale si combattono le battaglie fra hacker.

I Miss you

Succede che le prime indiscrezioni di un mese fa parlino del possibile addio tra la Rai e Miss Italia.

Succede anche che questa notizia, da un po’ nell’aria ma “comunicata agli organizzatori da gennaio”, dice il direttore Leone, trovi conferma ufficiale solo qualche giorno fa, alla chiusura dei palinsesti Rai. Le ragioni sarebbero tante: dai costi eccessivi alla voglia di rinnovare l’immagine della rete, rinnovando anche quella delle donne.

Che ci sia qualcuno realmente dispiaciuto per questo divorzio faccio un po’ fatica a capirlo, ma lo posso accettare.
Che ci sia chi, in seguito a questo divorzio, decida di manifestare il proprio dissenso mi fa sorridere.
Che a manifestare il proprio dissenso, prima con una lettera al presidente della Rai Tarantola, poi addirittura con un’interrogazione parlamentare, sia una senatrice del partito che ho votato (e che è a un passo dallo sfaldarsi definitivamente), beh, onestamente mi lascia senza parole.

Le parole giuste

La pronuncia del cognome del neoministro Cecile Kyenge assomiglia moltissimo a quella di quelle parole che qui in Puglia, terra d’accoglienza per eccellenza, usiamo per tradurre nel nostro dialetto il verbo “piangere”.
“Chiang'”.

Ho letto le sue dichiarazioni di oggi. Sono parole che arrivano dopo le schifezze pronunciate dall’eurodeputato Borghezio e dopo un discorso un po’ stupido fatto dal presidente della regione Veneto Zaia (avrebbe fatto lo stesso discorso se una ragazza ghanese fosse stata violentata da due austriaci, e se magari il ministro avesse avuto la pelle come la sua? Mi permetto di non crederci), che da parte sua si affretta a spiegarsi meglio perchè, dice, è stato “tirato in ballo in una polemica senza ragione”.

Sono dichiarazioni chiare e nettissime, che rivendicano un senso di appartenenza e la necessità di “cominciare a usare le parole giuste”.

Dialetticamente parlando, forse li ha davvero fatti piangere, questi barbari con elmi e corna.

Siamo una squadra fortissimi

E dopo le nomine dei ministri del governissimo Letta, ecco l’infornata di viceministri e sottosegretari (40).

Sfido io, adesso, a lamentarvi dei titolari dei dicasteri. Davvero li ritenete peggiori dei vice?

“Siamo una squadra fortissimi”.

1 maggio

L’articolo 1 della nostra Costituzione, quella che per qualcuno è “la più bella del mondo”, recita testualmente:

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”

La necessità di avercela e di celebrarla, una “festa dei lavoratori”, Adele la spiega così. E secondo me lo fa molto bene.

WordPress.com News

The latest news on WordPress.com and the WordPress community.