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L’Inter, Cou-vacic, la stagione di caccia e i fantasmi del passato

Non penso riempirò di spilli le bambole voodoo di Mancini per la cessione di Mateo Kovacic (tanto più alle cifre che leggo), così come non credo scenderò in piazza per lanciare molotov contro l’ambasciata indonesiana. E non perché non lo ami come giocatore. “Non sei tu, sono io”, direbbe qualcuno in altri contesti.

Chiamiamoli teorema e corollario di Cou-vacic: non è vedendo più la panchina che il pallone che un potenziale talento esplode; non è stravolgendo compiti e posizioni in campo che ne definisci il ruolo.

Dimostrazione del teorema. All’epoca della cessione di Coutinho fui tra i pochi a non farne un dramma. Era un baby talento? Assolutamente sì. Rientrava nei piani dell’Inter? Purtroppo no. Giusto cederlo – molto a malincuore – se sei costretto a far cassa. Magari discutiamo delle cifre in ballo, questo decisamente sì.

Dimostrazione del corollario.
Passando da tre allenatori, Kovacic è stato provato almeno in quattro posizioni (play basso, interno, trequartista, addirittura esterno con una scelta criminale). Risultati? Tanti dubbi, e molta pressione inutile sulle spalle di un ventenne alla prima esperienza in un competizione importante e lontano da casa.

Facciamo ordine su Mateo. È un potenziale talento? Sì. Ha espresso tutto il suo potenziale? No. Si è capito dove debba giocare? No. Potrà diventare un fuoriclasse? Glielo auguro, ma non lo sappiamo. Potrà diventare un giocatore decisivo, in grado di spostare, da solo, gli equilibri di un torneo o di una stagione? Difficile.

Giusta o sbagliata (per me tecnicamente sbagliata – avrei insistito su Kovacic, in squadra e fisso in campo – ma comprensibilissima) che sia, si parla di una cessione che porterà nelle casse del club fior di quattrini. Grosso modo gli stessi quattrini che il Bayern Monaco ha sborsato per comprare un campione affermato come Vidal, non un progetto di fuoriclasse. Un’altra stagione anonima come le precedenti, e quella cifra non la sborsa più nessuno. Peraltro, Kovacic era palesemente fuori dal progetto tecnico: era uno dei tanti, lì a contendersi il posto con gente che ha la metà della sua classe e della sua eleganza. Non esattamente l’architrave dell’Inter di Mancini*.

Mateo Kovacic è una specie protetta. E chiedergli di mordere le caviglie all’avversario o di sprintare sulla fascia con dei terzini piccoli e rognosi vuol dire aprire ufficialmente la stagione di caccia. Come cantava Sting, “If you love somebody, set them free”. E allora free Kovacic. Libero di giocare, e libero di giocare dove ritiene di farlo meglio. Non imprigionato tra panca e realtà.

Adesso il punto centrale è un altro, secondo me. Non è più l’opportunità e la liceità della cessione di Kovacic: è cercare di non buttare nel cesso quel tesoretto. I fantasmi di Ricky Alvarez e Alvaro Pereira gridano
ancora vendetta.

In sintesi: ciao Mateo, in bocca al lupo e grazie per tutto. E divertiti, soprattutto, tu che puoi.

*Dopo un precampionato deludente e una cessione dolorosa, Mancini ha solo una cosa da fare per salvare il posto: arrivare almeno terzo. I soldini dell’Europa League, da soli, non sarebbero sufficienti a chiudere in pari il bilancio dell’anno prossimo. Diversamente, che continui a telefonare ai big per convincerli a firmare con l’Inter, se vuole. Ma a quel punto sarebbe più giusto che lo facesse da casa sua.

La mozione Poborsky

Chi mi conosce bene sa quanto io ami lo sport. Sono un telespettatore onnivoro: seguo quasi tutto (a parte qualche “incidente di percorso” come, che ne so, il curling), anche se tendo a essere abbastanza nazionalpopolare privilegiando calcio e basket.

E però, mi piace anche la politica. Tanto.

Dico “però” perchè, a me che piace trovare “ponti”, affinità, analogie anche tra mondi molto diversi tra loro (e sport e politica lo sono), stavolta ho voluto sottolineare le differenze.

Senza parlare di etica – persa spesso in entrambi i contesti, e di esempi ne avremmo tanti – e oltre a quelle differenze facilmente intuibili, ce n’è una su tutte che secondo me è un punto chiave. La partecipazione e la fidelizzazione.

Generalmente te lo ricordi, il momento in cui diventi tifoso di una squadra di calcio. Che possa essere la squadra della tua città, che possa essere una delle “big” (se non abiti a Milano o Torino, le due cose non coincidono), ricordi il periodo e le ragioni.
Io che sono barese e che sono – e sarò – tifoso del Bari, ricordo quando diventai simpatizzante dell’Inter. Era la stagione 1993-1994, l’ultima di Ernesto Pellegrini, una stagione maledetta e stranissima: salvi alla penultima giornata in campionato, a un solo punto dalla retrocessione, ma vincitori della Coppa Uefa col Salisburgo. Col senno di poi avrei dovuto farmi qualche domanda.
Era l’anno di Dennis Bergkamp e Wim Jonk: uno salutato come il nuovo Messia e degna fotografia della squadra (deludente in campionato, decisivo e capocannoniere in Europa. Ma ebbe modo di darmi soddisfazioni quando passò all’Arsenal, diventando uno dei più grandi giocatori dei Gunners e della Premier League degli ultimi vent’anni), l’altro un onesto centrocampista col vizio del gol. Sarà proprio Jonk a decidere il ritorno a San Siro con gli austriaci, dopo lo 0-1 a Vienna targato Berti.

Quel gol non portò solo la Coppa Uefa a Milano. No. Portò anche un tifoso in più all’Inter. Il sottoscritto. Mi ero già avvicinato alla squadra proprio durante l’avventura in Europa, ma quella fu la consacrazione. Come ogni bambino, fui attratto da una squadra vincente: a dieci anni non capisci se una squadra gioca bene o meno, se è aiutata o sfavorita dagli arbitri e dalla sorte, se ha raggiunto gli obiettivi prefissati o se è stata la stagione è stata un fiasco totale (e vista quell’annata, meglio così).
Sono tre i principali motivi per cui da bambini si diventa tifosi di una squadra: i colori della divisa (motivo molto più diffuso si quanto pensassi), il fatto che questa squadra vinca e il fatto che ci giochi un tuo idolo. Lo sport ti fidelizza, per lo più da piccolo, quando le cose vanno bene. Da allora in poi condividerai quella fede con altri romantici, innamorati, disperati come te, e stavolta per davvero “nella salute e nella malattia”.

Anche in politica un partito in cui credi e che goda di ottima salute può invogliarti a farne parte. Ma c’è un’eccezione grossa così.

In politica quando mai si è visto che una squadra che esca con le ossa rotte da una competizione venga subissata dall’affetto e dall’entusiasmo dei suoi supporter? Mai, diciamocelo. Al contrario, sono molto più comuni i riposizionamenti e i cambi di casacca (e questi nello sport sono più rari). E non parlo di quelli per fair play a fine partita. Sul carro del vincitore, in politica, non si trova mai posto. È tipo un pullman scoperto, con tanti tifosi saliti a festeggiare. Anche i tifosi dell’ultimissima ora.

Eppure, c’è un però.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a ogni tentativo di suicidio assistito da parte dei vertici PD. Roba che neanche nelle cliniche svizzere. Nell’ordine:
– una snervante querelle sulle regole delle primarie
– giustificazioni per chi non ha votato al primo turno ma vuole votare al secondo che nemmeno a scuola (di queste, accolto solo il 7% delle domande, e molte bocciate anche con motivi stupidi. Alla faccia della partecipazione)
– primarie per i parlamentari – che, se fatte bene, sono un’ottima idea – organizzate in dieci giorni, per di più tra Natale e Capodanno e con i famosi impresentabili poi esclusi dalle liste
– mazzate tra Bersani e Renzi fino a inizio dicembre, poi fair play, campagna elettorale con tacchini sui tetti e giaguari da smacchiare, #pdbrothers, Renzi portato in giro come il salvatore della patria, elezioni non-vinte, regolamenti di conti, vendette trasversali, 101 franchi tiratori, dimissioni di Bersani, Renzi di nuovo osteggiato (salvo poi riportarlo in giro nel Paese perchè tra qualche giorno in molti comuni si vota per le amministrative)
– dal “mai con Berlusconi” al governo con Berlusconi in un mese, a volte anche meno. E se nel governo con Berlusconi i ministri si chiamano Alfano, Lupi, Quagliariello, vuol dire che è Berlusconi che governa, non tu. Perchè in questo caso il tuo cognome, “Letta”, pesa molto più del tuo nome, “Enrico”
– un nuovo (?) segretario, scelto nella stanza dei bottoni da sei persone e la cui candidatura è stata l’unica presentata in assemblea nazionale, in continuità con la segreteria-Bersani e senza chiare indicazioni sul futuro (congresso come e quando? Aperto o chiuso? E soprattutto: tu, segretario, ti ricandidi? Fino al congresso sarai una safety-car o una vettura in gara?)

Il mio Bari, che come tutte le squadre piccole ha vissuto più bassi che alti, non penso abbia mai vissuto tragedie del genere. Neanche la stagione macchiata dal calcioscommesse e dalla retrocessione. L’unico dramma sportivo che riesco ad associare al calvario del PD è il 5 maggio. Non quello manzoniano: quello di Hector Cuper. Un naufragio, un’implosione totale. Una non-vittoria, per dirla alla Bersani, nonostante il doppio vantaggio, in classifica e nel parziale. Cioè, esattamente quello che è successo al PD a fine febbraio.

Nonostante il doppio tracollo, prima nelle urne, poi nella scelta del Presidente della Repubblica, buona parte dell’elettorato del PD ha deciso di non lasciare solo il partito, anzi (probabilmente per non consentire ancora a questi dirigenti di fare altri danni). E se da una parte si bruciavano le tessere in piazza, da un’altra parte nascevano germi di mobilitazione.

Mobilitazione collettiva, come quella che ha portato all’occupazione di tante sedi del PD sul territorio nazionale, e che descrive bene Giuseppe. Giuseppe è un mio caro amico, fa parte di OccupyPD Bari, ha partecipato al presidio fuori dall’assemblea PD a Roma, alla riunione nazionale di OccupyPD a Prato ed è intervenuto a Piazzapulita. Quando descrive OccupyPD, ne parla come di una “battaglia di generosità”. E fa bene, a mio avviso, poichè se già in condizioni normali chi si dedica a una qualsiasi attività impiega tempo e risorse che potrebbe dedicare ad altro, in questo caso questo discorso vale ancora di più, dato che vanno considerate riunioni domenicali o dopo una giornata di lavoro, tempo passato a scrivere documenti e a coordinare gli altri gruppi e perchè no, anche un po’ di soldini per la trasferte in tutta Italia.

Ma la mobilitazione può anche essere singola, personale. La descrive Lorenzo in una lettera sul blog di Pippo, che condivido in toto e che non avrei saputo scrivere meglio. Per inciso, è esattamente quello che ho fatto io: entrare nel circolo del mio quartiere, chiedere informazioni sul tesseramento, dire apertamente che volevo prendere la tessera “perchè sono incazzato”. Per me questa è la “mozione Poborsky”: un po’ come se un tifoso interista, piuttosto che allontanarsi dalla squadra dopo quel maledetto 5 maggio, avesse deciso di sottoscrivere un abbonamento e di passare dalla poltrona di casa al seggiolino di San Siro.

Perchè in fondo, quando ci sono di mezzo i sentimenti, è sempre una questione di generosità.

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